Il nuovo reato di “propaganda fascista”. Limiti costituzionali e dubbi interpretativi.

Sul nuovo reato di “propaganda fascista” introdotto dal progetto di legge Fiano approvato nella giornata di ieri 12 settembre dalla Camera dei Deputati, la premessa d’obbligo è che tutto ciò che ha attinenza con il periodo più buio dello della nostra storia va censurato, una censura che dovrebbe muovere innanzitutto dal piano della coscienza morale dell’individuo e della collettività. E’ proprio da una tale coscienza “condivisa” che dovrebbero nascere leggi come questa che si propongono, nelle intenzioni del legislatore, di segnare una cesura con un passato doloroso. La condivisione del testo di legge però non è avvenuta e ciò ha comportato, inevitabilmente, critiche da parte di alcuni ambiti della società civile e dalle opposizioni parlamentari, critiche che talvolta non indugiano a considerare “liberticida” il testo di legge.
Tuttavia, la legge in questione presenta, nella prospettiva di un osservatore del diritto, alcuni profili problematici non certo e non solo per i suoi effetti in termini di divisioni politiche e sociali, quanto per il suo contenuto che è suscettibile, da un lato di porre dubbi applicativi di non poco conto, dall’altro di produrre un potenziale contrasto conalcuni enunciati costituzionali.
Scendendo più nel merito, il nuovo articolo 293 bis punisce “chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco”.
Il primo punto dirimente è cosa significa esattamente fare opera di propaganda fascista. La voce enciclopedica dell’Enciclopedia Treccani definisce “propaganda” come ogni “azione che tende a influire sull’opinione pubblica e i mezzi con cui viene svolta. È un tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti di chi lo mette in atto. La p. utilizza tecniche comunicative che richiedono competenze professionali, nonché l’accesso a mezzi di comunicazione di vario tipo, in particolare ai mass media, e implicano un certo grado di occultamento, manipolazione, selettività rispetto alla verità. I messaggi possono arrivare a implicare diversi gradi di coercizione o di minaccia, possono far leva sulla paura o appellarsi ad aspirazioni positive”.
Dunque, si può riassumere, è “propaganda” tutto ciò che viene svolto secondo alcuni requisiti imprescindibili: a) il tentativo di influire sull’opinione pubblica b) il carattere di sistematicità dell’azione c) i mezzi organizzati allo scopo.
Se questi sono i requisiti indefettibili, c’è da chiedersi se si possa considerare rientrante nel concetto di propaganda stesso un “saluto romano” o, per sdrammatizzare, una torta con l’immagine di Mussolini. Certamente no perché manca il carattere della metodicità così come difetta l’intenzione di influire sull’opinione pubblica ed i mezzi utilizzati sono di facile accessibilità.
Peccato però che, secondo molti fautori della stessa legge, con la novella legislativa si intende punire proprio questi comportamenti non finalizzati ad una vera e propria “riorganizzazione” del partito fascista (condotte quest’ultime già ricomprese e punite nella vigente legge Scelba) né, per ciò che interessa, caratterizzati dalla sistematicità tale da influenzare le coscienze. Come spiegano alcuni parlamentari del partito democratico, insomma, la vera novità del progetto di legge consisterebbe nel fatto che un saluto romano, gadget nostalgici e varia merce della stessa categoria possano integrare il reato. Tale interpretazione stride evidentemente con la nozione di “propaganda” che è in primo luogo un concetto della lingua italiana prima che una categoria giuridica di riferimento.

Trascuriamo le suggestioni interpretative della dottrina dei parlamentari democratici che, per la verità trovano sponda nella formulazione ambigua della norma che sembra riferire alla “propaganda” anche atti isolati di richiamo ai simboli fascisti, e ammettiamo che venga effettivamente punita la “propaganda” propriamente intesa e cioè quella rispondente ai tre requisiti che il concetto stesso esige. Siamo sicuri che la legge sia legittima sul piano costituzionale?

I dubbi interpretativi ci sono perché se è vero che la Costituzione, vietando la sola ricostruzione del partito fascista (XII disposizione finale), non impedisce al legislatore ordinario di dettare regole più incisive a tutela dell’ordine democratico anche assistite da una sanzione penale, dall’altro lato l’interpretazione della Corte Costituzionale è tesa ad ancorare ogni forma di “apologia del fascismo” entro i limiti che l’interpretazione sistematica della Costituzione prescrive.
Nella storica sentenza n. 1 del 1957, con riguardo alla legge Scelba la Corte precisava, infatti, che “l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in un’esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista. Cio’ significa che tale condotta elogiativa deve essere considerata reato non gia’  in sé e per sé, ma in rapporto a quella riorganizzazione”.
Dunque, la libertà di espressione trova un limite nella eventualità che essa si proietti nella finalità organizzativa del disciolto partito fascista. Tutto ciò che residua sono opinioni che, per quanto censurabili sul piano etico e democratico, producono i loro effetti solo ed unicamente nella sfera della rimproverabilità sociale ma non possono condurre ad incriminazioni penali.
Parzialmente difforme è stata l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione, nella sentenza 17/06/2009 n° 25184, aveva invece punito il mero saluto fascista.
Tuttavia, la difformità rispetto all’orientamento del giudice costituzionale sembra in verità essere più apparente che reale perché ciò che la Cassazione intende punire non è il saluto fascista in sé come atto direttamente lesivo del bene giuridico, quanto piuttosto il comportamento calato nel contesto pubblico in cui esso avvveniva che era tale non solo da provocare “adesioni e consensi tra le numerose persone presenti, ma era inequivocamente diretta a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale od etnico”.
Dunque, anche nell’interpretazione degli ermellini a sancire l’illiceità penale, era la finalizzazione del comportamento alla creazione di una base di riferimento per una realtà futura associativa anche meramente potenziale che avesse il fascismo quale ideologia di riferimento e non il gesto apologetico in sé considerato.
Anche i giudici di merito, del resto hanno sempre dimostrato una forte riluttanza all’incriminazione del saluto romano in sé per sé considerato, sminuendo anche il peso del precedente della Cassazione.
Nella sentenza del 6 marzo 2015, il Tribunale di Livorno ha assolto quattro tifosi veronesi accusati – stavolta ai sensi della legge Mancino – di aver compiuto nel corso di una partita di calcio “manifestazioni esteriori usuali del disciolto partito fascista nell’eseguire il gesto del saluto romano”. Per il giudice livornese, il gesto che appare privo di illiceità in sé – non ha “attitudine alla diffusione e alla pubblicizzazione di idee discriminatorie e violente”. E maggiori analogie con l’orientamento della Cassazione si colgono nel punto in cui i giudici livornesi attribuiscono rilievo decisivo al luogo dove si compie il presunto illecito: secondo il tribunale, “la manifestazione sportiva di per sé (a differenza di una di carattere politico) non è normalmente il luogo deputato a fare opera di proselitismo e propaganda politica, come potrebbe verificarsi in occasione di un corteo, di un comizio, di una manifestazione di piazza”.
E d’altra parte tale argomentazione, fondata sul contesto sociale di riferimento su cui i gesti ideologicamente collegati al fascismo si manifestano, si innesta su di un altro principio che costituisce un cardine del sistema penale e cioè il “principio di offensività” secondo cui, come noto, un comportamento incriminato penalmente deve essere per sua natura suscettibile di ledere sul piano giuridico un bene oggetto di tutela, principio che trova fondamento nello stesso testo costituzionale. Quale sarebbe il bene oggetto di tutela nel caso di una mera “propaganda fascista”? L’ordine democratico sarebbe leso solo da una condotta di propaganda con determinate caratteristiche, tali cioè da essere finalizzata a ledere l’ordine democratico, e cioè concretamente finalizzata ad una organizzazione del disciolto partito fascista o comunque di entità sociali che possano richiamarne i suoi principi aberranti. E’ evidente, a tal riguardo, che non ogni condotta apologetica/propagandistica possa contenere questa specifica dimensione finalistica.
Quale corollario del principio di offensività che prevede che ad essere punita debba essere l’offesa concreta al bene giuridico, peraltro, si prospetta la difficile legittimità della fattispecie rientranti nei c.d. “reati di pericolo”, quei reati cioè in cui la soglia di punibilità non è collegata direttamente alla lesione del bene giuridico ma è di fatto anticipata per ragioni di prevenzione generale. Il reato introdotto sembra proprio rientrare in questa categoria di reati.
Non è qui il caso di riferire le perplessità che autorevole dottrina penalistica (Padovani ex multis) ha evidenziato in ordine alla legittimità dei reati di pericolo quanto piuttosto richiamarne un aspetto della stessa che qui più di ogni altro sembra aver qui rilievo ai fini della interpretazione della nuova norma penale e cioè quello per cui in reati in cui la tutela risulta anticipata rispetto alla concreta lesione del bene giuridico, ai fini del necessario rispetto del principio di offensività e di determinatezza (principi cardine del diritto penale), è necessario che l’identificazione delle condotte presuntivamente pericolose avvenga secondo criteri ancorati a massime di esperienza consolidata o a regole scientifiche conosciute, nel rispetto del principio di congruenza razionale tra mezzi e scopi.
Tutto ciò risulta carente nella novella legislativa che si limita a citare attività di “propaganda” senza evidenziarne i tratti essenziali ai fini della lesione del bene giuridico protetto, senza per esempio specificarne l’aspetto che più di ogni altro appare degno di rappresentarne il suo disvalore penale e cioè lo specifico contesto di riferimento da cui possa generare il pericolo di una concreta lesione all’ordine democratico.

Dalla ricostruzione emersa si può concludere, in definitiva, che la novella è suscettibile di condurre ad interpretazioni difformi ed incerte tali da poter sconfinare nell’illegittimità costituzionale che presuppone, almeno stando a quanto riferito dalla Corte Costituzionale nella storica sentenza del 1957 e finora mai disattesa, una finalizzazione della condotta all’organizzazione di partiti fascisti. Mentre, forse, sarebbe stata l’occasione per definire meglio le fattispecie penali già esistenti al fine di scongiurarne la difformità nell’applicazione pratica ed ancorarne la concreta illiceità al principio di offensività tutelando, al contempo, il principio di affidamento del cittadino nella certezza della previsione penale

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